Friday, 2 December 2016

TIDES ( MAREE) Intervista ad Alessandro Negrini su LongTake - di Martina Ibba

http://blog.longtake.it/2016/09/12/tides-intervista-ad-alessandro-negrini/


Tides – Intervista ad Alessandro Negrini

Seduti al tavolino di uno Spazio Base stranamente silenzioso, abbiamo chiacchierato con Alessandro Negrini, regista torinese che dopo aver viaggiato per mezza Europa decide di farsi “adottare” dall’Irlanda del Nord. Al Milano Film Festival porta Tides, A History of Lives and Dreams Lost and Found (Some broken), narrazione poetica e surreale, in prima persona, di un fiume al quale spetta l’ingrato compito di separare Repubblica irlandese e Monarchia inglese, cattolici e protestanti. Un regista che ha prestato orecchio alla corrente  fluviale e che ci racconta cosa ha sentito.

È nato a Torino, ha viaggiato intorno all’Europa. Cosa l’ha portata a stabilirsi nell’Irlanda del Nord?

Non l’ho ancora capito. Ci sono finito tanti anni fa, rimasi affascinato da questo luogo che aveva appena abbandonato la guerra e ci vivo ancora, anche se, in realtà non ci sono mai. Sono stato adottato dagli irlandesi perché abbiamo in comune questa voglia di goderci la vita e di festeggiarla anziché averne paura, mi ci trovo bene.

Lei dice “irlandese”, ma in effetti qual è la percezione della nazionalità di un abitante dell’Irlanda del Nord?

È una domanda cruciale, se la chiedi a un cattolico si sente irlandese, mentre la grande maggioranza dei protestanti si sente leale alla Corona. E quindi in base a chi lo chiedi, riceverai una risposta diversa. In più dove vivo io c’è questa schizofrenia politico-psicologica ancora più marcata, poiché la città ha due nomi, si chiama Derry per i cattolici e Londonderry per i protestanti.

Il suo sito web personale si apre con una citazione: “Cinema is a bicycle on the clouds”. Che cosa significa per  lei?

È una citazione di Federico Fellini, uno dei miei riferimenti. Lo scomodo ogni tanto con grande timore, sperando che non si rivolti nella tomba. Ammiro la sua interpretazione immaginifica della realtà, questo credo sia il cinema: un mondo molto simile a quello del sogno, e nei sogni le biciclette stanno sulle nuvole. Quando sei al cinema ti trovi davanti a un uomo o una donna che sono alti otto metri e, inevitabilmente,  psicologicamente diventi bambino. Un paradigma che non si può applicare alla televisione perché è l’opposto, tu sei alto otto metri, in scala, rispetto ai personaggi dei film.

Nella sua biografia afferma inoltre di essere un regista per errore. Come mai?

Io volevo fare altro nella vita, volevo fare il poeta. Però poi lessi questa cosa di De André, il quale, citando Benedetto Croce, disse che fino ai vent’anni siamo tutti poeti, dopo i vent’anni rimangono solo due categorie di persone a scrivere poesie: i poeti e i cretini. Io ho sempre avuto il timore di scivolare nella seconda. Ho abbandonato all’epoca questo tentativo di carriera e mi son trovato, quasi per gioco, a fare un cortometraggio. Fu quasi un errore, ma da lì è nata la mia carriera. È quasi una parolaccia, dire carriera, non mi reputo un regista con un curriculum vitae ortodosso, ho fatto un po’ di tutto nella vita, non ho fatto la scuola di cinema. Ho fatto tantissime altre cose bizzarre.

Venendo a Tides: si ricorda il momento esatto in cui l’ha folgorata l’idea di far parlare un fiume

Sicuramente è stato davanti a una birra: l’Irlanda è un isola che galleggia sulla Guinness. Sapevo che volevo dare voce a questa storia mai raccontata da un punto di vista diverso, cosa c’era di meglio del dar voce a una storia di confini, se non al confine stesso? Quindi mi sono immaginato che il confine a un certo punto si stanchi, questo cittadino molto emerito e un po’ silenzioso che ha visto di tutto decida di parlare, a modo suo, con un linguaggio fluviale. Con tante correnti, con tante storie all’interno, esattamente come i fiumi, con delle storie che emergono, tornano sotto forme diverse e con forze diverse, perché in base alla corrente cambiano le storie. Decisi di narrare questo angolo di mondo, poco raccontato, dal punto di vista stesso del fiume. Sì, penso sia stato davanti a una birra, forse davanti al fiume, con la birra.

È evidente l’influenza della poesia, nel modo di narrare, nella costruzione del monologo del fiume e via discorrendo. Da cosa ha tratto ispirazione?

Io ho i miei punti di riferimento personali, però è tutta colpa del fiume, ha il suo linguaggio. E ho cercato un tipo di linguaggio che fosse nel contempo saggio ma anche innocente, e cosa c’è di meglio della poesia? Perché il fiume è così, è saggio ma  anche innocente, è vecchio ma continuamente giovane, scorre, rifluisce, ritorna. Quindi il linguaggio più consono che mi sono immaginato per far parlare  il fiume è quello  poetico, tra l’altro spero di esserci riuscito, è stata una scommessa. Però doveva parlare per forza con un timbro e un tono onirico, ritornando un po’ al tema dei sogni.

Il film mostra in maniera delicata e quasi onirica una tematica forte e complessa. Qual è stato l’impatto a Derry? Ha suscitato l’effetto che avrebbe sperato?

Quando ho avuto l’idea di fare questo film ho contattato le persone tramite i mezzi tradizionali, articoli sui giornali e interviste in radio: il responso è stato molto gratificante, ho ricevuto un sacco di risposte di persone che  volevano raccontarmi il loro collegamento col fiume. Mi hanno raccontato degli aneddoti incredibili, storie straordinarie veramente felliniane. Cose che non sono riuscito a infilare nel film, ma avrebbero potuto esserci, per esempio la storia del contrabbando. Questo fiume, tra le tante cose che ha visto, è stato artefice, testimone e veicolo di tantissime forme di contrabbando: dalle sigarette, alle armi, alle pecore. Negli anni ’50 contrabbandavano le pecore dalla Repubblica all’Irlanda del Nord con le navi, però le forme di controllo alla dogana, all’epoca, erano molto all’acqua di rose e molti irlandesi fermavano soltanto le navi che vedevano tornare un po’ troppo in fretta.  Cosa facevano i contrabbandieri? Facevano fare le navi di due colori, un colore da un lato e un colore dall’altro, in modo che quando esse tornavano sembravano altre e non venivano fermate per il controllo. Storie di questo tipo si sono sedimentate nel film, questa no, ma tante altre sì, oltre ai materiali d’archivio che sono stati preziosissimi. Quasi tutti i filmati sono amatoriali e fatti da persone qualunque negli anni ’50,’60 e ’70, e hanno dato un tocco in più. Un’altra cosa che volevo era non utilizzare filmati ufficiali della BBC o televisioni varie. Sono ufficiali solo le voci che emergono dal fiume, si tratta di trasmissioni radiofoniche, annunci o altre voci, di attori, che è come se fossero le voci dei migranti.

Tides è stato finanziato parzialmente o interamente tramite crowdfunding? Si era già rapportato in precedenza a questa realtà? Com’è stato?

Questo film è totalmente indipendente, infatti ne vado orgogliosissimo, è stato una grande sfida. Ha avuto finanziamenti  dalla Northen Ireland Screen e sostegni dall’Istituto di Cultura di Edimburgo, tuttavia mancava ancora un pezzo. Non mi sono arreso, ho deciso di fare un crowdfunding e farlo in Irlanda non è come farlo in Italia, significa bere barili di birra e andare a raccontare la tua storia a persone che magari hanno poca dimestichezza col mondo del Web. Grazie a questo percorso abbiamo raccolto tante altre storie, il crowdfunding ha aggiunto un pezzetto di finanziamento al film ed è stato vitale per farlo compiere nella sua totalità. Era la prima volta che ne facevo uso, è faticoso perché devi bombardare il  web di messaggi, ricordare alla gente il tuo progetto, non puoi andare a fare il venditore di folletti, devi cercare di far capire che quella storia appartiene, in qualche modo, anche alla persona che finanzia, perché questo film parla di temi che toccano un po’ tutti: il confine, la dimenticanza,  i sogni dimenticati, che sono il filo rosso del film.

A questo proposito, dove finiscono i sogni che non si avverano? Aspettano davvero noi?

Questa è la domanda che il fiume lascia al pubblico, io penso che abbia ragione. Non so dove siano, ma sicuramente ci stanno aspettando da qualche parte. Ci stanno aspettando perché, soprattutto in questo momento storico, c’è un grande bisogno di utopia radicale, ma anche nelle piccole cose, non soltanto un’utopia politica. Un riappropriarsi di una visione del mondo in cui non ci si debba per forza, sempre e comunque, accontentare di un destino che non è il tuo. Questa cosa il fiume ce la ricorda, a suo modo, con il suo linguaggio. Risvegliarsi la mattina e dire: «Dove sono finiti i sogni che tanto mi tenevano in vita qualche anno fa?». Quindi, tornando alla domanda, il luogo fisico non so dove sia ma so che c’è, so che ci attendono, da qualche parte.


Thursday, 19 September 2013

Conversando con Alessandro Negrini

Scritto da  

Tra le visioni che più ci hanno colpito, nel corso dell’Irish Film Festa, vi è stata senz’altro quella di Paradiso, sia per il fatto che non capita così frequentemente di vedere un documentario realizzato in Irlanda del Nord da un regista italiano, sia per la brillantezza del lavoro svolto. Per entrare subito nel vivo della questione, abbiamo pensato bene di bloccare l’autore di questo film, Alessandro Negrini, e di fargli qualche domanda.

Come è nato il progetto di Paradiso, il tuo documentario?
Così come tante altre cose nella mia vita, Paradiso ha avuto origine da un errore: stavo camminando nel centro di Derry ed entrai dentro al cancello che conduce al Fountain pensando fosse una scorciatoia. Capii poco dopo che ero invece capitato in una prigione a cielo aperto, completamente circondata dal muro di sicurezza. Da quel momento decisi di scoprire chi erano le persone che avevano deciso di vivere dietro a un muro. E come in tutte le prigioni, vi scoprii diverse tipologie di “prigioniero”. Trovai il prigioniero che non si è mai neanche accorto d’essere in prigione, e che ha passato la vita a ballare, come le due vecchiette protagoniste del film. Trovai quello che invece ha bisogno della propria prigione, che la abbellisce, che ci mette la pianta di fiori sulla finestra. E come in tutte le prigioni, trovai il prigioniero che voleva, seppur metaforicamente, evadere. Direi che “Paradiso” in fondo è la storia di una piccola, preziosa evasione. Ed il grimaldello utilizzato per evadere è in questo caso la musica. Un poeta a me caro disse: un uomo che guarda un muro è un uomo solo. Due uomini che guardano lo stesso muro è il principio di un’evasione.
Abbiamo saputo che a Derry ci vivi anche ma, da quanto tempo hai contatti diretti con l’Irlanda del Nord?
Io vivo a Derry da una decina d’anni. Quando arrivai a Derry la guerra era da poco finita, seppur ufficialmente. E quella realtà aveva dentro di sé quel disordine creativo, anche ingenuo se vuoi, dei luoghi che hanno appena abbandonato un conflitto. Si sentiva l’energia, il disordine di chi sta, volente o nolente, voltando la pagina. Io, solitamente, mi annoio laddove c’è troppo ordine. L’ordine è nullificante per me.
Devo però dire che, purtroppo, Derry e l’Irlanda del Nord stanno perdendo quello che era il fascino del “voltare la pagina” . E lo stanno perdendo perché la nuova pagina su cui è finita è l’omologazione alla cultura del dio denaro. La corsa scatenata al privato, al far quattrini. Cultura che ha già travolto la repubblica d’Irlanda. Anche qui, il nuovo totem, di cui non si può parlar male, è il Mercato. Anche in Irlanda cosi come in tutta Europa, si parla del Mercato come se fosse una persona: “Oggi il mercato s’è ripreso, forse sta un po’ meglio, speriamo non abbia una ricaduta”. Sento la mancanza anche qui, come in tutta Europa, di un sogno che sia più grande di quello dell’aumento del PIL.
Il tuo film introduce la realtà del Fountain, una piccola enclave protestante nella parte della città a maggioranza cattolica, attraverso l’incontro con musicisti e altri personaggi di grande spessore umano. Come si sono instaurate le relazioni con loro e cosa ti ha colpito di più, emotivamente, di questa esperienza?
Con gli abitanti del Fountain feci un patto: dissi loro che ero un po’ matto, e che sarei potuto capitare nelle loro cucine con la telecamera. Loro dissero di sì, anche se non avevano capito bene quanto matto fossi.
Per fare i registi occorre violare i confini, i muri. Ho sempre pensato che se non fossi diventato un regista sarei potuto diventare un contrabbandiere. Per questo amore del violare i confini.
Iniziai così a “scavalcare” questa frontiera, a bussare alle porte delle persone, ad andare a bere nei pub limitrofi e a conoscere le persone che ci abitavano.
Un giorno una di quelle porte alla quale bussai fu quella di Catherine e May, le due sorelle del tango. La loro innata, ineludibile e contagiosa freschezza mi sedusse immediatamente. Capii subito che loro sarebbero state tra i protagonisti del film.
Il protagonista principale, Roy, lo conobbi in un bar dietro al Fountain. Tra una Guinness e l’altra venne fuori l’idea della serata danzante come ‘antidoto’ a quello che è il peggior lascito di ogni guerra, la paura dell’altro.
Quello che mi ha colpito di più emotivamente di questa esperienza è stato questo viaggio che ho percorso insieme ai protagonisti del film. Mi piace pensare che faccio film non su qualcuno, ma “con” qualcuno. Ed è davvero fondamentale per me far sentire ai personaggi che per me loro non sono importanti perché devo filmarli, ma perché esistono. Questa è l’emozione più bella per me, il sapere che le persone che filmi rimarranno nella tua vita. Ancora adesso vado dalle due vecchiette a trovarle e a prendere ‘lezioni di gioventù, e non è raro che si finisca a ballare un valzer nella loro cucina. Loro mi hanno insegnato che, a volte, occorre un sacco di tempo per diventare giovani.
Nel corso del film si allude alla realizzazione, da parte di uno dei protagonisti, di un disco contenente ballate che rievocano passato e presente del Fountain. Che esito ha avuto questa ballata musicale?
Il CD prodotto dal protagonista Roy, ha avuto un discreto successo. Finì nella radio della BBC. Nel film c’è questa frase: “I vincitori scrivono la storia, e i perdenti scrivono le canzoni”. In questo caso, col suo cd Roy ha scritto un pezzettino di Storia.
Volendo muovere un appunto alla rievocazione delle tragiche contrapposizioni tra cattolici e protestanti, che resero così difficile la vita in una città sostanzialmente divisa, si avverte un po’ la mancanza di rimandi alle lotte di classe, al background sociale che solitamente accompagna certi scontri ideologici. Consci che questo non era certo tra i tuoi obiettivi primari, vuoi aggiungere qualcosa a riguardo?
Mi trovi in disaccordo. Anche se ne ebbe alcuni connotati , io non credo che in Irlanda ci sia stata una lotta di classe. Altrimenti i poveracci cattolici si sarebbero uniti ai poveracci protestanti anziché farsi la guerra. E’ stata una guerra tra la stessa classe, non di classe. Detto questo, a me interessava fare un film su un tema che credo sia universale, su questo veleno che ci viene iniettato quotidianamente: la paura. La paura come motore generante di tutti i nostri gesti, e sulla possibilità di batterla; in questo caso la paura dell’altro. Ma la mia piccola ambizione era fare un film che potesse avere anche una piccola eco su uno dei più grandi paradossi che non notiamo nemmeno più: le città, nate dal bisogno degli esseri umani di  incontrarsi, sono oggi fatte e costitute da essere umani divisi tra di loro. Pensa al  condominio, per esempio. Io sono sempre meravigliato dalle micro-guerre da condominio. Non c’è agglomerato di solitudine più eclatante. Tutti asserragliati in casa dentro piccole “alcatraz”. Mi interessava questo. Raccontare una storia dove, per una volta, da queste carceri visibili o invisibili, si evade. E si evade facendo una cosa semplicissima: riaprendo le porte, riaprendo le danze. Invitando il proprio vecchio nemico a ballare nuovamente insieme. Ma la cosa straordinaria per me è che in questa storia, coloro che non si rassegnano allo status quo, coloro che sono portatori di questo piccolo sogno in cui non si è più domati dalla Paura, a far questo sono  gli anziani. I vecchi. Ironico, no?
Come ti sei trovato, produttivamente parlando, a realizzare un documentario in Irlanda?
All’inizio non è stato semplice. Convincere a darci soldi per un film su un ghetto protestante, che probabilmente morirà e con tutti protagonisti tra i 70 e 84 anni.
Ho una grandissima produttrice, Margo Harkin, ed insieme lo proponemmo alla BBC con un trailer ed una presentazione molto ben fatti. Credo sia piaciuta loro l’idea che io non volessi fare un altro film sulla guerra nordirlandese, ma che avesse un taglio diverso. Dall’altro lato sono ero e sono ancora stupefatto, perché Paradiso è tutt’altro che un prodotto tipico da BBC, ma per fortuna a loro è piaciuto molto l’approccio estetico del film. Abbiamo anche avuto il sostegno di MEDIA, il maggior ente europeo per il cinema.
La raccolta dei materiali di repertorio riguardanti sale da ballo e conflitti sociali è stata agevole o ha comportato qualche indagine più del previsto?
Avendo la BBC a bordo, ho potuto consultare decine di ore di loro materiale d’archivio. Per il materiale sulle sale da ballo ho dovuto cercare anche tra gli archivi della TV irlandese oltre che tra gli archivi fotografici della biblioteca. Ma per me è’ stato un piacere più che un lavoro. Ho un legame affettivo molto forte con il mondo delle sale da ballo, mio nonno ne gestiva una nel ferrarese e mia mamma in seguito mi ci portava con sé da bambino sulla riviera romagnola. Le sale da ballo sono state il mio mondo delle meraviglie, guardare migliaia di ore d’archivio è stato per me un piccolo regalo alle mie memorie di bambino che si addormentava felice nelle sale da ballo.
Il regista norvegese Knut Erik Jensen
Per finire, una piccola curiosità personale: in un’altra intervista hai citato con entusiasmo un regista norvegese, Knut Erik Jensendel quale chi scrive ha apprezzato molto il sorprendente lungometraggio Burnt by Frost, diretto una decina di anni fa ma poco conosciuto in Italia. Che rapporti hai col cineasta scandinavo e col suo cinema?
Knut Erik Jensen è in realtà uno dei miei punti di riferimento costanti. Lo conobbi quando mi trovai nell’estremo nord della Norvegia per lavoro nel 2004, nel paese dove lui è nato, Honningsvag, a mezzora da Capo Nord. E lì vidi con lui un suo film che cambiò la mia percezione visiva: Stella Polaris. I suoi film sono una sorta di sinfonia visiva, dove il tempo e lo sguardo si dilatano. Magia pura. In comune con lui ho anche il direttore della fotografia norvegese che ha girato Paradiso e col quale collaboro tuttora al nuovo film su cui sto lavorando. Lui ha lavorato con Knut Erik spesso, si chiama Odd Geir Saether, ed è stato anche direttore della fotografia inInland Empire di David Lynch. Oltre ad essere un grande regista è una persona splendida, di una umanità incredibile. La seconda volta che lo vidi mi invitò a casa sua verso le 7 di sera. Io credendo che si trattasse di un invito a cena non mangiai all’hotel. Arrivato vidi che c’erano solo the, biscotti e vino.
Mi spiegarono dopo che lassù in famiglia fanno cena alle 4.30 del pomeriggio. Morivo di fame ed al quarto bicchiere di vino mi arresi: non ho mai mangiato tanti biscotti in vita mia come quella sera.

Tuesday, 3 September 2013

'Paradiso' keeps travelling around the world! Multi award winning documentary 'PARADISO', entirely filmed in Derry, Northern Ireland, keeps travelling around the world. The story of one man's dream in Northern Ireland: get the old enemies dancing together.
'Paradiso' is now Official Selection @ Interrobang International Film Festival,  Des Moines , Iowa, Uneted States

Wednesday, 12 September 2012

'PARADISO' Official Selection @ COLUMBIA GORGE FILM FESTIVAL, Washington, USA!


(...) shiploads of optimism, joie de vivre, humor and sheer humanity. The fact that we are watching real people provides the film with its magic. This is magic realism, coming from the allegedly chilly north – by an Italian director.

Martin Alioth, Irish correspondent of Neue Zürcher Zeitung (Swiss major daily newspaper)

Wednesday, 8 February 2012

Alessandro Negrini @ DocsBarcelona Pitching Forum

DocsBarcelona Pitching Forum Projects

Skrevet den 07-02-2012 15:40:11 af Tue Steen Müller

http://www.filmkommentaren.dk/blog/blogpost/1882/

The opening was fun and sweet, clever, serious and thoughtful. Alessandro Negrini (photo), director from Italy living in Northern Ireland & Tor Arne Bjerke, producer from Norway, took the auditorium by heart and brain with their ”Ballad of a Ghost Town” to be released in 2013 50 years after a natural disaster, only 3 years ago declared a man-made human tragedy destroyed five towns in less than seven minutes, killing more than 2000 people. The filmmakers go back to the Italian town and to the inhabitants. Great stuff!
As was the project that closed the pitching forum, ”La fin du Monde”, presented brilliantly by local director and producer Ventura Durall i Soler, who advised that the next DocsBarcelona better be in Bugarach in France because this is the only place that will survive the catastrophy that will hit the world the 21st of December of 2012. Nanouk Films is the company, Nanouk was the first documentary in the world, maybe ”La fin du Monde” will be the last!
There were many projects that were well received, I can only mention a few here, you can see the titles of the selected projects at the website below, and google many of them for further information.
Juanjo Giménez Pena from Barcelona presented a wonderful cinematic project ”Contact Proof”, built on negatives and slides from the French photographer Pascal le Pipe, mostly Americana as I understood it. His director colleague from Barcelona, who has attended DocsBarcelona several times, Albert Solé, plans to go with charismaric Spanish science pioneer back to the Antarctica to revive ”Frozen Memories”. Polish Krzysztof Kopczynski presented the strong story, “Dybbuk”, from Uman in Ukraine, where Chassids travel to celebrate Rosh Hashanah at the grave of Rabbi Rachman, and where clashes appear between the locals and the visitors. Italian Ivan Gergolet has a wonderful 90 year old Maria Fux, who helps people find themselves in “Dancing with Maria”. Macedonian Atanas Georgiev charmed with “Funeral and Wedding Orchestra”, like his previous “Cash and Marry” full of cinematic quality, humour and atmosphere.
www.docsbarcelona.com
Tilføjet i kategorierne: Festival, Articles/Reviews ENGLISH

Saturday, 14 January 2012

INTERVISTA LINDRO

Il documentario cult di Alessandro Negrini: italiano vive da anni in Irlanda

’Paradiso’, tolleranza a passo di tango

http://www.lindro.it/Paradiso-tolleranza-a-passo-di,4242#.TsJqsvTz2so

Una delicata vicenda dedicata alla musica e alla danza ambientata in un quartiere-ghetto di Derry
Derry, o Londonderry, è una città divisa. Ha due nomi, due anime, e un fiume che più che attraversarla, la spezza a metà. Su una sponda vivono i cattolici, sull’altra i protestanti, due comunità che la sanguinosa guerra civile nord-irlandese ha ineluttabilmente allontanato. Come spesso accade per i luoghi che sono sopravvissuti a un evento traumatico, questa cittadina dell’Irlanda del Nord – la seconda per grandezza dopo Belfast, ha oggi un’aria spavalda - allegra e malinconica insieme, e lo spirito di chi vuole lasciarsi dietro un passato che è forse ancora troppo vicino per essere dimenticato.
Proprio nel cuore di Derry poi, a tenere vivo il ricordo di trent’anni di violenza settaria, esiste un quartiere chiamato Fountain, che prima dei troubles era vivace, brulicante di pub, ristoranti e sale da ballo. Oggi è un paradosso urbano, un piccolo agglomerato circondato da mura dietro cui continuano a vivere poco più di trecento persone, quasi tutte anziane: quel che resta dell’unica enclave protestante del centro di Derry, divenuto zona neutrale dopo la fine del conflitto.
E’ in questo luogo altamente simbolico che Alessandro Negrini, regista torinese stabilitosi a Derry da qualche anno, ha girato Paradiso, uno splendido documentario commissionato dalla BBC che continua a raccogliere recensioni eccellenti e ad aggiudicarsi premi nei maggiori festival di tutto il mondo – dall’India al Bangladesh passando per l’Italia e l’Ungheria. Il film racconta – o forse è meglio dire ’cattura, la piccola grande vicenda di Roy Arbuckle e degli altri Signetts, una band di ultrasettantenni che decide di riunirsi per tornare a suonare sul palco del Mem, il locale in cui prima della guerra i cittadini di Derry appassionati di danza si ritrovavano e insieme, senza fare caso a questioni di nascita o religione, semplicemente, ballavano.
Alessandro Negrini racconta allora di come ’Paradiso’ sia il frutto di un errore di percorso, del suo amore per la terza età, del lavoro di regista in Irlanda del Nord e del perché ancora non abbiamo potuto vedere il suo documentario sugli schermi italiani.

In una intervista radiofonica di qualche tempo fa avevi spiegato che quella di libertà è un’idea fondamentale per Paradiso. Trovo molto interessante e coraggioso che anche tu, come regista, ti sia preso la libertà di fare un film che ha per protagonisti un gruppo di anziani e ambientato nelle delle sale da ballo, una scelta che non dev’essere stato facile far digerire ai produttori.
Io nutro una passione gigantesca per gli anziani, che sono come dei libri umani che ci dimentichiamo di aprire. Nel caso specifico di Paradiso ebbi la fortuna di scoprire – o essere scoperto - ancora non l’ho capito, da queste due vecchiette straordinarie (Kathleen e May, due delle protagoniste nonché muse ispiratrici del film, NdR) che mi hanno insegnato che occorre un sacco di tempo per diventare giovani. E infatti io prendo lezioni da loro continuamente, vado a trovarle tutte le settimane. E poi c’è il fatto che io sono cresciuto nelle sale da ballo. Mio nonno gestiva in un paesino del ferrarese un teatro cinema che nel fine settimana si trasformava in balera. Poi, una volta trasferitomi a Torino dopo il divorzio dei miei genitori, cominciai a seguire mia mamma nelle sale da ballo della città. E’ per colpa sua sono diventato un nottambulo, mi sono lasciato rapire da questi profumi e queste atmosfere ktich. In fondo Paradiso è anche un tributo a questo mondo, che in Italia sta scomparendo - o forse è già scomparso.”
Com’è iniziata la storia di Paradiso?
L’origine di tutto il film è un errore, e questo dimostra come a volte gli errori abbiano un valore enorme. Un giorno, poco dopo essere arrivato a Derry, mi persi e imboccai quel passaggio pedonale che si vede all’inizio del film e che porta all’interno del Fountain. Pensavo fosse una scorciatoia, invece scoprii che si trattava di un labirinto chiuso dal quale potevo uscire solo tornando al punto da cui ero arrivato. E così ho scoperto questo mondo, questa piccola prigione a cielo aperto, invisibile, e mi sono incuriosito. Ho voluto capire chi viveva in questa prigione. Ho cominciato a fare ricerche, sono andato a bussare alle porte del Fountain e una di queste porte fu aperta da Kathleen e May, che mi invitarono ad entrare e non capivano perché un italiano andava a far domande sul loro quartiere. Quel giorno scoprii la loro passione per il ballo – per il tango anche, che poi è diventato nella mia testa il tempo del film, cioè il movimento di queste due entità che si avvicinano e si allontanano senza toccarsi veramente mai.

Immagino che ti abbiano descritto spesso come un cervello in fuga, ti identifichi in questa definizione?
Questa cosa dei cervelli in fuga mi viene in effetti chiesta in continuazione e non so mai cosa rispondere, perché in realtà è il mio cervello che a volte fugge da me – impazzisce e mi fa fare delle cose strane come diventare un regista appunto, che è un lavoro assolutamente non normale. E non so nemmeno se posso definirmi un regista in fuga, perché io nasco come regista all’estero, anche se in realtà adesso sto lavorando anche in Italia, con una coproduzione. ’Cervelli in fuga’ secondo me viene utilizzato spesso in maniera retorica. Non so se ci voglia così tanto coraggio a fuggire, diciamo che ci vuole anche tanto coraggio a restare. Non mi sento di farmene un vanto. Io sono fuggito dall’Italia prima che diventasse invivibile – e già la vedevo invivibile allora.. penso comunque che alla fine tutto ricada in quella che è la tua natura, probabilmente se fossi nato a Derry, sarei fuggito da qui.”

A livello professionale, quali sono le differenze che hai notato fra la realtà italiana e quella del Regno Unito?
“La differenza sul campo è gigantesca rispetto all’Italia, soprattutto a livello di metodo. Il mondo del documentario è forse un po’ diverso, però le notizie che arrivano dal nostro paese sono allarmanti. Un mio amico che fa il regista a Roma, mi ha detto che lì per lavorare devi andare alle feste. E poi l’altra grande differenza è la mancanza di soldi per far cinema. In Italia devi cercare i soldi quasi totalmente all’estero, non essendoci più la figura del produttore-mecenate. Oggi il produttore va a cercare i soldi a destra e a manca, ed è così anche qui, ma con una dinamica molto più seria, almeno per quella che è stata la mia esperienza.
Comunque, approssimazione è la parola che più mi viene in mente. In Italia è tutto contaminato dalla televisione, va tutto al ribasso. Anche qui devi fare l’audience, eppure lo sconosciuto Alessandro Negrini viene commissionato e il suo film va in onda di lunedì sera alle su BBC 1. Quando ’Paradiso’ ha cominciato a farsi conoscere, la Rai mi ha contattato e mi ha chiesto di mandarlo in onda... gratis. Esiste questa cultura del non pagare, di giocare al ribasso.
Un’altra differenza è che qui quando inizi non devi avere la raccomandazione. Hai la possibilità di proporre le tue idee – che poi magari vengono bocciate, però almeno ti viene consentito di fare il primo passo.

E’ stato così anche per Paradiso?
Sì, e ovviamente non è stato facile. Io sono andato a proporre un film con degli anziani come protagonisti, su un ghetto che probabilmente morirà tutto, quindi un’idea tutt’altro che commerciale. E poi ho dovuto anche convincerli che il film sarebbe stato divertente. Non è stato facile, ma alla fine ha funzionato. Mentre in Italia o bluffi o fai il millantatore.
In questo periodo stai viaggiando molto per presentare il tuo film..
E’ vero, mi sento un po’ zingaro. Le prossime destinazioni saranno Roma e poi gli Stati Uniti Sto viaggiando anche per il progetto nuovo.

Si può dire qualcosa su questo tuo nuovo progetto?
Guarda, sono un emigrato e mi porto dietro anche tutti i cliché dell’emigrato, sono molto scaramantico.. si tratta di due coproduzioni, ma non ti dico di più!

Che consiglio daresti al tipico giovane regista in erba?
In realtà io stesso mi sento sia giovane sia in erba, e rappresento un pessimo esempio perché non ho fatto la scuola di cinema, ho imparato tutto sul campo. E nella mia vita pensavo di fare tutt’altro. Ovviamente ho sempre amato il cinema, mio nonno aveva questo piccolo cinema, ho mangiato pane e film. Però non ci pensavo, non mi sentivo all’altezza. Però il consiglio che posso dare è di guardare i film, conosco tanti giovani registi che non conoscono il cinema.. essere meno ossessionati con il proprio ombelico e di perdersi un po’.

Quali sono i maestri che ti ispirano e a cui fai riferimento quando lavori?
“Il mio lume – e mi sembra quasi offensivo tirarlo giù dal piedistallo, è Fellini. Poi c’è un regista norvegese che adoro e che ho conosciuto di persona. Si chiama Knut Erik Jensen e anche lui ha fatto un film meraviglioso su dei vecchietti, si chiama ’Cool and Crazy e parla di un coro di ottantenni che vive nel circolo polare artico. Lui è un regista che amo perché guardando i suoi film ti rendi conto che non cerca e scopre le persone solo per filmarle, c’è un grande amore che traspare dai suoi lavori. Poi i punti di riferimento cambiano come cambiano i gusti per le donne o per le città.

Saturday, 7 January 2012

REGISTI EMERGENTI - Intervista Seconda Parte

http://cinemio.it/film-italiani/alessandro-negrini-paradiso-2/13997/


Registi emergenti: Paradiso di Alessandro Negrini – seconda parte


Eccoci arrivati alla seconda parte dell’intervista ad Alessandro Negrini che ci racconta tutti i retroscena di Paradiso, il suo ultimo pluripremiato documentario sulla voglia di realizzare un sogno.

Le domande al regista

Alessandro, com’è stato girare con i musicisti e con le ‘bamboline del MEM’? Ci sono degli aneddoti che ti va di raccontare?

Le due protagonisti femminili, le due sorelle del tango Kathleen e May, sono una fabbrica  di contagiosa gioventù e allegria. Loro sono l’esatta trasposizione del piccolo fiore giallo che, nel film, riesce a fuoriuscire dal muro di plexiglass. Loro sono evase da quel carcere senza nemmeno saperlo. La paura dell’altro non le ha mai contagiate, nemmeno durante il conflitto. Il loro problema era guardare come ballava un uomo, non di che religione fosse.
Quando le incontrai capii che la loro passione per il tango poteva dare il tempo del film. In fondo il tango è un movimento tra due identità che si sfiorano senza toccarsi mai veramente, come quella cattolica e quella protestante in Irlanda del Nord.
Quando andammo a filmarle, per esempio nella scena in cui ballano in cucina, non ho mai chiesto loro di farlo: il segreto era di preparare il set, le luci e nel mentre farsi intrattenere da loro. E tra una parola e l’altra, io mettevo su un cd con un tango, e dopo 10 secondi loro non ce la facevano, si mettevano a ballare dimenticandosi completamente delle telecamere.
Una scena dovemmo rifarla tre volte perchè, ogni volta, Kathleen e May mi trascinavano davanti alla telecamera a ballare con loro. Devo dire che tra me e loro nacque immediatamente una complicità legata al reciproco amore per le sale da ballo. Io nelle sale da ballo ci sono cresciuto, mia mamma mi ci portava con se da bambino.
Lì dentro scoprii il fascino di un mondo purtroppo scomparso. Una reverie alla francese dove passavo il tempo ad osservare le donne che ballavano.  Ancora adesso, a volte, mi addormento sperando di sognare quei passi, quei profumi, quelle atmosfere.
Le Bamboline del Mem

Il documentario è girato in Irlanda del Nord dove tu vivi da un pò. Com’è la situazione per i registi lì? Pensi che ci siano più opportunità rispetto all’Italia?

Rispetto all’Italia è senza dubbio migliore. In Italia lo spazio lasciato al film documentario è quello lasciato agli indiani in America, viene messo nelle riserve.  Ci sono alcune isole di coraggiosa resistenza come l’evento annuale Documentary in Europe a Bardonecchia o Rai Doc di Rai tre.
Manca però proprio l’idea popolare del documentario come film vero e proprio, che non sia reportage giornalistico o film d’elite. Il cinema nasce come documentario, i fratelli Lumiere trasmisero la magia del cinema filmando la realtà. Ancora adesso, quando dico che faccio film documentari, alcuni amici  o conoscenti pensano che io faccia film sui pesci tropicali o sui pinguini.
Una mia amica di recente, mi ha detto: “senti, ma quando lo fai un film vero?” Come un film vero? Paradossalmente cosa c’è di più vero di un film con personaggi veri?
Una scena del film

“Paradiso” ha vinto molti premi nei festival a cui ha partecipato. Qual è stato invece il riscontro di pubblico che hai ottenuto?

La mia emozione piu bella è vedere come, nei luoghi dove viene proiettato Paradiso, dalla Germania agli Stati Uniti sino in India, questa piccola storia riesca a tradursi nelle altre culture e nelle altre vite cosi lontane dal quartiere del Fountain.  Una signora, ad una presentazione a Wurzburg, in Germania, mi ha detto: “Ma dovremmo ballare di nuovo anche noi, qui!
Siami divisi, non ci parliamo, tutti asserragliati in casa a guardare uno che alle otto di sera apre dei pacchi in televisione.  Viviamo in società che generano disperate solitudini, tutte chinate sul proprio ombelico e tutte domate da mille paure.  Credo che al pubblico piaccia Paradiso perchè, in punta di piedi, ci suggerisce che si, forse è sempre possibile “riaprire le danze. Evadere. Smettere d’essere domati dalla paura di tutto.
La peggior cosa che può capitare a chi vive in carcere, per quanto invisibile quel carcere sia, è dimenticarsi d’essere dietro a un muro. Convincersi che vivere dietro quel muro sia normale è il vero crimine, il vero Paradiso perduto.
Una presentazione di Paradiso al pubblico

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Il mio progetto principale è godermi la vita, che è il progetto più a lungo termine che ho. Oltre a questo sto lavorando a due nuovi film, uno è un film documentario che sarà girato in Italia, e l’altro un film “vero” come direbbe la mia amica. E chissà, magari prima o poi faccio anche il film sui pesci tropicali.
Mi piacerebbe anche fare un film sul linguaggio e su come esso domini la nostra percezione delle cose. Leggevo qualche tempo fa di una direttiva Cee che stabilisce che il tuo corpo può assorbire lo 0,02 di benzene, che è un veleno. Decidono, linguisticamente, che il veleno è tollerabile: ma non vi può essere tolleranza o approssimazione su certi argomenti, il veleno non può essere un pò tollerabile.
E’ come se io ti chiedessi “sei incinta?”, e tu mi rispondessi: “un po’“. Dobbiamo riappropriarci del linguaggio, come si dice in Miracolo a Milano” di De Sica, “vivere in un paese dove un buongiorno significa buongiorno“. E, magari, riaprire qualche sala da ballo.
Il regista Alessandro Negrini
Ringrazio di cuore Alessandro per la sua disponibilità e consiglio vivamente i nostri lettori di cercare e vedere il suo piccolo gioiellino.