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Posted on 12 settembre 2016
Seduti al tavolino di uno Spazio Base stranamente silenzioso, abbiamo chiacchierato con Alessandro Negrini,
regista torinese che dopo aver viaggiato per mezza Europa decide di
farsi “adottare” dall’Irlanda del Nord. Al Milano Film Festival porta Tides, A History of Lives and Dreams Lost and Found (Some broken), narrazione
poetica e surreale, in prima persona, di un fiume al quale spetta
l’ingrato compito di separare Repubblica irlandese e Monarchia inglese,
cattolici e protestanti. Un regista che ha prestato orecchio alla
corrente fluviale e che ci racconta cosa ha sentito.
È nato a Torino, ha viaggiato intorno all’Europa. Cosa l’ha portata a stabilirsi nell’Irlanda del Nord?
Non l’ho ancora capito. Ci sono finito tanti anni fa, rimasi
affascinato da questo luogo che aveva appena abbandonato la guerra e ci
vivo ancora, anche se, in realtà non ci sono mai. Sono stato adottato
dagli irlandesi perché abbiamo in comune questa voglia di goderci la
vita e di festeggiarla anziché averne paura, mi ci trovo bene.
Lei dice “irlandese”, ma in effetti qual è la percezione della nazionalità di un abitante dell’Irlanda del Nord?
È una domanda cruciale, se la chiedi a un cattolico si sente
irlandese, mentre la grande maggioranza dei protestanti si sente leale
alla Corona. E quindi in base a chi lo chiedi, riceverai una risposta
diversa. In più dove vivo io c’è questa schizofrenia
politico-psicologica ancora più marcata, poiché la città ha due nomi, si
chiama Derry per i cattolici e Londonderry per i protestanti.
Il suo sito web personale si apre con una citazione: “Cinema is a bicycle on the clouds”. Che cosa significa per lei?
È una citazione di Federico Fellini, uno dei miei riferimenti. Lo
scomodo ogni tanto con grande timore, sperando che non si rivolti nella
tomba. Ammiro la sua interpretazione immaginifica della realtà, questo
credo sia il cinema: un mondo molto simile a quello del sogno, e nei
sogni le biciclette stanno sulle nuvole. Quando sei al cinema ti trovi
davanti a un uomo o una donna che sono alti otto metri e,
inevitabilmente, psicologicamente diventi bambino. Un paradigma che non
si può applicare alla televisione perché è l’opposto, tu sei alto otto
metri, in scala, rispetto ai personaggi dei film.
Nella sua biografia afferma inoltre di essere un regista per errore. Come mai?
Io volevo fare altro nella vita, volevo fare il poeta. Però poi lessi
questa cosa di De André, il quale, citando Benedetto Croce, disse che
fino ai vent’anni siamo tutti poeti, dopo i vent’anni rimangono solo due
categorie di persone a scrivere poesie: i poeti e i cretini. Io ho
sempre avuto il timore di scivolare nella seconda. Ho abbandonato
all’epoca questo tentativo di carriera e mi son trovato, quasi per
gioco, a fare un cortometraggio. Fu quasi un errore, ma da lì è nata la
mia carriera. È quasi una parolaccia, dire carriera, non mi reputo un
regista con un curriculum vitae ortodosso, ho fatto un po’ di tutto
nella vita, non ho fatto la scuola di cinema. Ho fatto tantissime altre
cose bizzarre.
Venendo a Tides: si ricorda il momento esatto in cui l’ha folgorata l’idea di far parlare un fiume
Sicuramente è stato davanti a una birra: l’Irlanda è un isola che
galleggia sulla Guinness. Sapevo che volevo dare voce a questa storia
mai raccontata da un punto di vista diverso, cosa c’era di meglio del
dar voce a una storia di confini, se non al confine stesso? Quindi mi
sono immaginato che il confine a un certo punto si stanchi, questo
cittadino molto emerito e un po’ silenzioso che ha visto di tutto decida
di parlare, a modo suo, con un linguaggio fluviale. Con tante correnti,
con tante storie all’interno, esattamente come i fiumi, con delle
storie che emergono, tornano sotto forme diverse e con forze diverse,
perché in base alla corrente cambiano le storie. Decisi di narrare
questo angolo di mondo, poco raccontato, dal punto di vista stesso del
fiume. Sì, penso sia stato davanti a una birra, forse davanti al fiume,
con la birra.
È evidente l’influenza della poesia, nel modo di narrare,
nella costruzione del monologo del fiume e via discorrendo. Da cosa ha
tratto ispirazione?
Io ho i miei punti di riferimento personali, però è tutta colpa del
fiume, ha il suo linguaggio. E ho cercato un tipo di linguaggio che
fosse nel contempo saggio ma anche innocente, e cosa c’è di meglio della
poesia? Perché il fiume è così, è saggio ma anche innocente, è vecchio
ma continuamente giovane, scorre, rifluisce, ritorna. Quindi il
linguaggio più consono che mi sono immaginato per far parlare il fiume è
quello poetico, tra l’altro spero di esserci riuscito, è stata una
scommessa. Però doveva parlare per forza con un timbro e un tono
onirico, ritornando un po’ al tema dei sogni.
Il film mostra in maniera delicata e quasi onirica una
tematica forte e complessa. Qual è stato l’impatto a Derry? Ha suscitato
l’effetto che avrebbe sperato?
Quando ho avuto l’idea di fare questo film ho contattato le persone
tramite i mezzi tradizionali, articoli sui giornali e interviste in
radio: il responso è stato molto gratificante, ho ricevuto un sacco di
risposte di persone che volevano raccontarmi il loro collegamento col
fiume. Mi hanno raccontato degli aneddoti incredibili, storie
straordinarie veramente felliniane. Cose che non sono riuscito a
infilare nel film, ma avrebbero potuto esserci, per esempio la storia
del contrabbando. Questo fiume, tra le tante cose che ha visto, è stato
artefice, testimone e veicolo di tantissime forme di contrabbando: dalle
sigarette, alle armi, alle pecore. Negli anni ’50 contrabbandavano le
pecore dalla Repubblica all’Irlanda del Nord con le navi, però le forme
di controllo alla dogana, all’epoca, erano molto all’acqua di rose e
molti irlandesi fermavano soltanto le navi che vedevano tornare un po’
troppo in fretta. Cosa facevano i contrabbandieri? Facevano fare le
navi di due colori, un colore da un lato e un colore dall’altro, in modo
che quando esse tornavano sembravano altre e non venivano fermate per
il controllo. Storie di questo tipo si sono sedimentate nel film, questa
no, ma tante altre sì, oltre ai materiali d’archivio che sono stati
preziosissimi. Quasi tutti i filmati sono amatoriali e fatti da persone
qualunque negli anni ’50,’60 e ’70, e hanno dato un tocco in più.
Un’altra cosa che volevo era non utilizzare filmati ufficiali della BBC o
televisioni varie. Sono ufficiali solo le voci che emergono dal fiume,
si tratta di trasmissioni radiofoniche, annunci o altre voci, di attori,
che è come se fossero le voci dei migranti.
Tides è stato finanziato parzialmente o interamente tramite
crowdfunding? Si era già rapportato in precedenza a questa realtà? Com’è
stato?
Questo film è totalmente indipendente, infatti ne vado
orgogliosissimo, è stato una grande sfida. Ha avuto finanziamenti dalla
Northen Ireland Screen e sostegni dall’Istituto di Cultura di
Edimburgo, tuttavia mancava ancora un pezzo. Non mi sono arreso, ho
deciso di fare un crowdfunding e farlo in Irlanda non è come farlo in
Italia, significa bere barili di birra e andare a raccontare la tua
storia a persone che magari hanno poca dimestichezza col mondo del Web.
Grazie a questo percorso abbiamo raccolto tante altre storie, il
crowdfunding ha aggiunto un pezzetto di finanziamento al film ed è stato
vitale per farlo compiere nella sua totalità. Era la prima volta che ne
facevo uso, è faticoso perché devi bombardare il web di messaggi,
ricordare alla gente il tuo progetto, non puoi andare a fare il
venditore di folletti, devi cercare di far capire che quella storia
appartiene, in qualche modo, anche alla persona che finanzia, perché
questo film parla di temi che toccano un po’ tutti: il confine, la
dimenticanza, i sogni dimenticati, che sono il filo rosso del film.
A questo proposito, dove finiscono i sogni che non si avverano? Aspettano davvero noi?
Questa è la domanda che il fiume lascia al pubblico, io penso che
abbia ragione. Non so dove siano, ma sicuramente ci stanno aspettando da
qualche parte. Ci stanno aspettando perché, soprattutto in questo
momento storico, c’è un grande bisogno di utopia radicale, ma anche
nelle piccole cose, non soltanto un’utopia politica. Un riappropriarsi
di una visione del mondo in cui non ci si debba per forza, sempre e
comunque, accontentare di un destino che non è il tuo. Questa cosa il
fiume ce la ricorda, a suo modo, con il suo linguaggio. Risvegliarsi la
mattina e dire: «Dove sono finiti i sogni che tanto mi tenevano in vita
qualche anno fa?». Quindi, tornando alla domanda, il luogo fisico non so
dove sia ma so che c’è, so che ci attendono, da qualche parte.
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